giovedì 21 novembre 2013

Callisto l'Amazzabambini

Correva l’anno 1873 quando Incisa Valdarno divenne teatro degli omicidi di quattro bambini. Inizialmente si pensò che questi bambini fossero annegati nell’Arno o che fossero stati rapiti da uno zingaro: i cittadini di Incisa non volevano accettare l'idea che il male fosse fra loro. Non si sapeva ancora che a togliere la vita ai piccoli era stato Callisto Grandi: uomo di aspetto deforme, basso e calvo, con la testa sproporzionata al corpo e con sei dita in un piede. Orfano e non sposato, era oggetto di scherno da parte di tutto il paese sia per il suo aspetto sia per la sua scarsa intelligenza.

Callisto era un carradore, ovvero riparava e costruiva carri, e proprio nella bottega i bambini andavano per deriderlo. Ma Callisto era stanco di essere beffato e così decise di farsi giustizia: aspettò che i bambini entrassero nella bottega per poi colpirli con una ruota dei carri in costruzione e seppellirli nel retro del magazzino. Fu scoperto mentre tentava di uccidere la sua quinta vittima.
Il Grandi confessò di essere stato lui ad uccidere gli altri bambini e, poiché era povero, gli vennero assegnati due difensori d’ufficio (Galardi e Papasogli) che decisero di rivolgersi a tre periti per dimostrare l’insanità mentale del loro assistito: Morselli, Livi e Bini. L’approccio di Morselli si basava sulle teorie lombrosiane che si stavano divulgano in quel periodo. Lombroso sosteneva che l'origine del comportamento criminale è insita nelle caratteristiche anatomiche del criminale, che è una persona fisicamente differente dall'uomo normale in quanto dotata di anomalie ed atavismi, che ne determinano il comportamento pericoloso. Callisto per le sue deformità rispecchiava la figura del delinquente atavico.

Livi e Bini invece distinguevano la malattia mentale dalla pericolosità, offrendo una panoramica ambientalista, secondo la quale sarebbero state le circostanze di stress e pressione psicologica ad indurre il loro assistito, malato mentale, a compiere i misfatti. Il loro obiettivo era quello di far passare Callisto come un pazzo non pericoloso ed evitare la sua incarcerazione.
Gli accusatori Morelli e Lazzaretti, invece, dichiararono che Il Grandi fosse sano di mente, intelligente in quanto alfabetizzato e astuto nel programmare minuziosamente gli omicidi, tutti intenzionali.



Nonostante Callisto nei verbali dichiarasse di essere “sposato con la Madonna”, i giudici non lo ritennero pazzo, dando ragione all’accusa: Il Grandi fu condannato a venti anni di lavori forzati all’interno del carcere. Il 10 Ottobre 1895, Callisto viene rilasciato dal reclusorio dell’Isola di Capraia e venne portato al Manicomio di San Salvi, perché individuo socialmente pericoloso, per poi essere ricoverato per imbecillità. In manicomio si comportò bene:  paziente operoso, docile e innocuo, dimostrò (proprio come aveva ipotizzato Livi in sede di giudizio) che in assenza di stimoli negativi dall'esterno "l'ammazzabambini" non avrebbe fatto male a una mosca.

Questa pena, così contraddittoria, sembrò inadeguata allo stesso Grandi che si lamentò: ” Se ero pazzo non dovevo essere messo in carcere ma in un manicomio; se non lo ero, come risultavo dal processo, sarei dovuto essere rilasciato dopo aver espiato la pena."


Callisto Grandi è oggi ricordato con il soprannome di "L'Ammazzabambini", che è anche il titolo di un libro, pubblicato nel 2006 da Patrizia Guarnieri, che racconta la sua storia processuale.



Valeria


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