giovedì 18 novembre 2010

Il fine di Fini

Ulteriori riflessioni sull’uomo nato vecchio e sulla sua “nuova” formula politica.


Se non fosse l’inconfondibile ed untuosa voce da attore navigato di Luca Barbareschi, il discorso introduttivo della convention di Futuro e Libertà per l’Italia svoltasi lo scorso 6 Novembre a Bastia Umbra, potrebbe essere un qualsiasi discorso di circostanza di una qualunque carica istituzionale; di un qualunque partito che cerchi sponde ideologicamente lontane ma all’occorrenza vicine; di un qualunque cittadino moderato o di un qualunque cittadino (vale anche la metatesi: cittadino qualunque) politicamente correttissimo.
Ed in effetti, non sono solo le parole di Barbareschi – l’indimenticabile interprete di Cannibal Holocaust, assurto a imperitura memoria nella succitata pellicola per lo squartamento di una tartaruga gigante, lo sventramento di un topo muschiato e la fucilazione di un maialino – a farci sospettare che qualcosa puzza di “minestrone alle cento verdure post-ideologiche” (andate a male). Se non si fosse capito già dal primo estivo vagito, i “futures” hanno voluto ribadire e mettere nero su bianco l’insipidità della loro formula politica: il prodotto si chiama Manifesto d’Ottobre.
Pomposa introduzione a parte (invocante una solenne rinascita della res publica), il Manifesto trasuda una correttezza politica da fare invidia al Veltroni di due anni fa (che figuraccia, tra l’altro, aver scopiazzato un suo vecchio discorso proprio nella convention di Bastia Umbra!). Ci sono un po’ di accenni all’importanza della cultura, c’è un pizzico di “stracciamento di vesti” per quanto concerne la corruzione, c’è un qualcosa riguardante la rottura con le “consuetudini usurate”, c’è un po’ d’immancabile buonismo di circostanza, rimandi alla laicità e al patriottismo repubblicano. Il tutto condito da un appello ad abbandonare la retorica “che inchioda il futuro al passato”. Appello retoricamente ineccepibile.
Riflettendoci bene, il Manifesto d’Ottobre è incommentabile, nel senso che è impossibile commentare una cosa così inconsistente. Non c’è tensione, non c’è rottura, non c’è individuazione del proprio perimetro d’azione. Non c’è identificazione – e non se ne prenda a male Carl Schmitt – in un qualcosa che consenta di discernere un “Noi” da un “Loro”. Il Manifesto d’Ottobre non esiste. “Futuro e Libertà” non esiste. Ecco.

Chi esiste, invece, è Gianfranco Fini. E la sua consistenza ontologica è ribadita dal nome scritto a caratteri cubitali sul simbolo, sopra un moderato verde speranza (fortuna che si voleva superare il personalismo del leader!). Ed allora ci accorgiamo che tutto esiste in sua funzione: il “manifesto” pian piano s’addensa come nebbia nella val padana, e diviene un qualcosa di decifrabile, anche se intangibile.
Qualcosa di decifrabile, ma solo se si considera la figura del suo leader, solo se lo si legge in chiave di legittimazione ideologica della rottura che, per la verità, lungi dall’essere una rottura culturale, è solo e unicamente tattica. Tutto il resto è superfluo, inutile, accessorio. Non esiste progetto di “destra nuova” in Fini, semplicemente perché non esiste un progetto nella sua azione che resta inchiodata al più basso dei tatticismi politici da prima Repubblica.
Inutile dunque ogni parallelo, sia proiettato orizzontalmente nel presente – ed è il tentativo, lodabile per certi punti di vista, di Mellone e Campi quando rapportano Fini alle destre di Sarkozy, Cameron e Reinfeldt1 –, sia riferito al passato. Ed in particolare mi riferisco all’infelice paragone di molti con l’esperienza della “Nuova Destra” di Tarchi (e non solo). Aldilà delle pur criticabili posizioni assunte dalla Nuova Destra, quello era un tentativo di ricerca di nuove sintesi tra pensieri distanti, ma divisi radicalmente solo da etichette che si reputava obsolete (ed è il caso del dialogo con Cacciari e con altri intellettuali di “sinistra”). Insomma, a differenza del progetto dei “futures”, il discorso intrapreso da Tarchi, aveva una consistenza.
Ma soprattutto, ciò che costituisce la vera e propria differenza abissale tra i due progetti, più che la sostanza della formula politica, è la mancanza di un “fine” (che non siano solo nuove poltrone) nel progetto finiano. Il Fine (con la F maiuscola) giustifica le nuove prese di posizione, la ricerca di nuove sinergie, il tentativo di costruire qualcosa di nuovo, anche in contrapposizione con il proprio passato politico. Ma se il Fine latita, se l’amalgama di culture politiche resta solo un esercizio di eclettismo, allora ogni tentativo di costruire una nuova cultura politica è velleitario.
Così come è velleitaria la critica alle categorie di Destra e Sinistra operata dal Manifesto d’Ottobre. Questo tipo di critica aveva un senso nel progetto di Tarchi, perché era mossa da uno stimolo politico e culturale ben preciso. Mentre la critica alla dicotomia Destra/Sinistra mossa nel Manifesto d’Ottobre è puramente strumentale, foglia di fico per bassi tatticismi politici.
Che non si tentino infelici paragoni e parallelismi di circostanza: di nuovo, nel progetto finiano, c’è poco e niente, né idee, né qualcosa di rilevante sul fronte della formula politica. Dunque in attesa degli sviluppi delle manovre di Palazzo, o dell’eventuale e probabile (e auspicabile, perché no?) inabissamento elettorale di FLI, ci godremo questi divertentissimi – e probabilmente ultimi – scampoli di legislatura.




Tommaso

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