domenica 28 novembre 2010

IANVA - Intervista inedita

Per chi li conosce non c'è bisogno di presentazioni. Per gli altri, questa intervista può essere un buon punto di partenza per avvicinarsi ad uno dei gruppi di musica italiana più ricercati e profondi del panorama nazionale. Potremmo abbandonarci, in introduzione, a desolanti considerazioni riguardo l'incapacità del pubblico italiano di alimentare la propria cultura con risorse artistiche di alta qualità, preferendo invece abbeverarsi al consumismo musicale più gretto e scontato. Ma non è questo il momento rimarcare lo stato di impecorimento nel quale si è ridotta la nostra gente. Ed ecco che in questa occasione presentiamo una compagine musicale che di italianità (in senso alto e positivo) trasuda.

Abbiamo intervistato Mercy, voce maschile ed anima "poetica" del gruppo, ponendogli domande ad ampio raggio. Con la consueta gentilezza, questi ci ha risposto esaurientemente, affrontando con uguale passione questioni artistiche e compositive, intellettuali e politiche.

1 - Hai già raccontato in precedenti interviste come sono nati gli Ianva. Quello che invece non sappiamo ancora è come nascono le vostre canzoni. Numerose linee musicali, due linee vocali, una certosina opera di rifinitura, a nostro parere rivelano la necessità di un certo "lavoro di squadra". Come si articola il vostro processo creativo?

Parrà strano, ma non abbiamo un metodo specifico. Esistono alcuni modi di massima, più dettati dalle circostanze oggettive che non da sistemi fissi e immutabili, ma sempre soggetti a essere ripensati. Diciamo che ogni singolo pezzo ha una storia a sé. Ci sono brani, specie tra i primi che abbiamo prodotto, nati attorno un sample mandato in loop. E questo è un sistema che amo molto perché il lavorare per stratificazioni successive porta sovente a esiti che sorprendono anche gli autori. Altre composizioni sono nate in modo canonico: con voce e chitarra oppure voce e pianoforte. Anche questo sistema ha i suoi vantaggi; infatti puoi stare certo che il pezzo che funziona e suona "risolto" anche così scarno di elementi, molto difficilmente diventerà un mezzo passo falso. Da ultimo la scrittura si è fatta più corale, direttamente in sala prove, anche se le idee iniziali sono, di solito, fornite dalla solita triade di autori che si è delineata nel tempo.

2 – Una delle particolarità a nostro parere più interessanti del vostro progetto è la convivenza di due "prime voci". Avete mai pensato di combinarle fra loro?

Possiamo piacere o no, ma credo sia innegabile che sia io che Stefania siamo in possesso di una vocalità abbastanza peculiare e riconoscibile. E questo porta già di per sé alla scelta di interpretazioni molto personalizzate. Nel senso, cioè, che ci capita sovente di dare la voce a dei personaggi, non molto diversamente da quanto avviene, per esempio, nel teatro o nel musical. Ovviamente nei nostri limiti. Uno di questi, ma è un limite che accogliamo quasi con gratitudine, è che tali personaggi dobbiamo necessariamente sentirli vicini, almeno sotto qualche aspetto, al nostro modo di pensare e sentire.

Questo, ovviamente, riduce di molto le possibilità d'interazione. E' vero, inoltre, che la polivocalità che è una delle cifre di tanto pop contemporaneo non ci interessa più di tanto. Ma laddove il plot ha richiesto un duetto tra i due personaggi, non abbiamo avuto difficoltà a inserirlo. A ciò aggiungi che io sarei tendenzialmente un baritono e Stefania un contralto e pure particolarmente grave. Due range che non si sposano benissimo, specie negli unisoni. Ma non è escluso che ci saranno di nuovo parti in duetto nelle nuove composizioni.

3 - Da un punto di vista stilistico la vostra musica viene generalmente ascritta al genere neofolk. Pensi che la definizione sia azzeccata?

Penso che non ci rappresenti interamente. E questa non è un'ubbia da artistoidi, ma un dato di fatto facilmente rilevabile all'ascolto. Detto questo, però, mi permetto di far notare che così come certe differenze le abbiamo dichiarate e rimarcate fin dall'inizio, alcune, determinate, affinità esistono e non ci sogniamo minimamente di dissimularle. Piaccia o no, il principale volano per la nostra proposta è stata la scena neofolk e mi sembrerebbe un comportamento poco corretto, oltre che poco intelligente, mettersi a fare gli schizzinosi ora che il range di ascoltatori si è allargato.

Da qualche tempo noto che si moltiplicano i colleghi che, pur restando nella sostanza musicale molto più addentro di noi in certi contesti, sentono l'esigenza di prendere le distanze e chiamarsi fuori. Non voglio mettere in dubbio che questa improvvisa, epidemica, voglia di verginità indie, di rispettabilità alternative col bollino blu, corrisponda a precise e sincere esigenze di evoluzione personale. Del resto, rientra nelle libertà individuali anche quella di dire: "va bene, abbiamo scherzato"!

Ma continuo a pensare che i tempi in corso di tutto necessitino tranne che di ulteriore gente che ha così tanta voglia di scherzare.

4 - Oltre ad essere fortemente evocativi, i vostri brani portano l'ascoltatore a riflettere sulle tematiche trattate al loro interno. Avete mai pensato di portare le vostre esibizioni verso forme di teatro - canzone in senso “gaberiano”?

Guarda, a volte mi è capitato di pensare che quella sarebbe, sulla lunga distanza, l'unica evoluzione possibile e, in fondo, consona per un progetto che, come il nostro, nasce sviluppato attorno a certi postulati. Ma, al di là delle valutazioni teoriche, ritengo indispensabile avere sempre il polso delle proprie reali possibilità e dei propri, inevitabili, limiti. Talenti assoluti come un Gaber, un Ranieri un Brel o un Gainsbourg, artisti cioè in grado di passare tanto disinvoltamente dall'espressione musicale a quella recitativa, non nascono ogni giorno. Tempistiche, fonazione, espressività corporea sono diversissime tra le due discipline. E non è affatto scontato che chi è passabilmente versato in una possa cimentarsi anche con l'altra senza risultare improbabile, quando non ridicolo. Se penso all'impaccio che mi coglie ogni volta che si presenta il problema di intrattenere qualche istante il pubblico per riempire un tempo morto originato da un imprevisto tecnico tipo, che so, una corda da sostituire, tocco immediatamente con mano le difficoltà che potrebbe incontrare una simile pretesa. Anche il semplice parlare rivolto a un uditorio può benissimo risultare problematico a chi, al contrario, con un buon microfono e la musica che scorre, appare assolutamente disinvolto. Non mi dispiacerebbe scrivere per il teatro, però. Se conoscessi un potenziale mattatore della categoria di quelli che abbiamo citato mi proporrei come suo co-autore.

5 – Passiamo a parlare dei contenuti delle vostre canzoni. In tutti i vostri lavori traspare uno schema d'analisi che ci pare essere sostanzialmente "spirituale": sapresti descrivere questa "forza di spirito" che pervade "Disobbedisco!" e che invece sembra evaporare in "Italia: Ultimo Atto"?

I due lavori descrivono due segmenti differenti e per certi versi antitetici della nostra storia nazionale. Nel primo coesistono forze potenti, viscerali, contraddittorie, ma, in fondo, vitalistiche. Lo spleen che aleggia in lungo e in largo è un sentito assolutamente personale del protagonista, tant'è che, sovente, si ammanta persino di sfumature profetiche. Ma è anche vero che appare come disciolto all'interno di un contesto di generale forza d'animo, fierezza e persino euforia. In altre parole, nel mondo delle potenzialità, degli esiti possibili, lo sviluppo virtuoso, il bel riscatto o, molto più semplicemente, un paese migliore e un futuro più grande e degno, appaiono traguardi ancora perseguibili. Nel secondo, al contrario, gli eventi principiano laddove la realtà, immensamente peggiore di quanto anche la più pessimistica delle analisi si fosse mai sognata di tratteggiare, impatta contro il corpo sociale polverizzandolo. E' uno snodo drammatico, forse tra i più intrisecamente dissolutori dell'intera storia umana. In quell'ora gli Italiani sperimentarono un senso di estromissione dalla storia che, secondo altre modalità, perdura a tutt'oggi. Si trovarono di fronte, cioè, la prospettiva di aver vissuto una finzione di grandezza e di dignità che rendeva il passato di colpo irreale e farsesco e il futuro impensabile se non rientrando in via definitiva nella prospettiva di servaggio eterno che è da secoli la vera spina dorsale della penisola.

6 - Nelle tue liriche sono spesso presenti rimandi al Fascismo, soprattutto in "Italia: Ultimo Atto". Ciò che risalta fin dai primi versi di "Dov'eri tu quel giorno?" è un'analisi disillusa del Fascismo storico. Tuttavia, in un'Italia che deve ancora imparare a rispettare la propria storia, trattare certe tematiche senza rendere omaggio ai "liberatori" può portare alcuni a definire la musica degli Ianva come fascista. Nè ci pare siano mancati attacchi diretti, tesi a bollarvi come tali. Cosa rispondi a questo genere di accuse?

Ho almeno due tipi di risposta a seconda di chi muove la critica anche se, lo chiarisco subito, in tutti i casi me ne strafrego. Se le obiezioni sono educate e motivate da uno spunto intellettuale, anche flebilissimo, sono sempre disponibile al ragionamento e all'analisi. Se, come spesso avviene, sono sorrette unicamente da un riflesso condizionato, da un odio antropologico cieco e sordo di fronte alla realtà e ai tempi, allora reagisco con speculare intolleranza. La verità è che non ne posso più di gente ignorante, di imbecilli che ingombrano il cammino degli spiriti liberi con la massa immane della loro ottusità. Sempre quella e sempre uguale. In un mondo che va facendosi sempre più fluidificato e in un sistema che infligge sempre più sofferenza, sperequazione e iniquità con la disinvoltura che è propria di chi padroneggia le cifre del suo tempo sarebbe indispensabile trovare nuove forme di pensiero e d'azione parimenti fluide, mutevoli e mimetiche. Invece quelli sono rimasti all'antifascismo militante, agli slogan di mezzo secolo fa e alla forma mentis dei partigiani dell'ultimo quarto d'ora. Mi rifiuto semplicemente di prendere in considerazione questa gente come fossero normali interlocutori perché tali non sono. Chiarito questo, ribadisco che il mio giudizio sul fascismo regime è assolutamente severo, ma è anche un po' più articolato rispetto alla corrente vulgata del "male assoluto". Solo il fatto che sia stata escogitata una simile definizione, subito sposata da personaggi pubblici, intellettuali e politici, che scomoda in un solo colpo etica e matafisica, e la si usi a cuor leggero, tra uno sniffo di coca e un pompino della velinona di turno, la dice lunga sulla statura intellettuale e sul senso della Storia della nostra classe dirigente.

7 - Il pezzo che ci piace di più in assoluto è certamente "Negli occhi di un ribelle". In essa si delinea una categoria umana che non aderisce a nessun clichè ideologico, dispiegandosi su un terreno assolutamente trasversale. Che cosa significa, secondo te, essere ribelli nel Terzo Millennio?

Il ribelle del terzo millennio non è, sotto il profilo antropologico, diverso da quelli che l'hanno preceduto. Si tratta, sostanzialmente, di un soggetto congenitamente incapace di convivere con l'ingiustizia quando questa travalica certi limiti. Detto questo, che è poco più di nulla, inizano le vere domande: quali dovrebbero essere questi limiti? Chi li stabilisce? Attraverso quali parametri? C'è una formula che è ben applicabile alle storie che abbiamo finora narrato, sia che si tratti degli Arditi che rifiutano di smobilitare, sia dei ragazzi del popolo o della buona borgesia che decidono di seguire D'Annunzio, sia, dopo l'8 Settembre, chi si orientò a scelte antitetiche, ma insufflate dalla buona fede: "Almeno, non ignobili." Il problema è che, oggi, con l'Ignobile conviviamo. Abbiamo sviluppato tutti gli anticorpi del caso. Un paragone che mi viene in mente è quello di una società che, invece di sepperlire i suoi morti, se li tiene a stretto contatto e convive con la putredine, sviluppando, tuttavia, una sorte di tolleranza che gli permette di non contrarre malattie mortali nell'immediato. Ovviamente la contemplazione della morte non risulta in alcun modo educativa per una simile tipologia di società. Manca la capacità d'infuturarsi, viene rimossa ogni possibilità di empatia. Una società che si consegna alla convivenza sistematica con le proprie putredini lo fa a prezzo dello smarrimento di ogni sensibilità comunitaria, di ogni nozione di bene comune e, da ultimo, a patto di percepire la propria storia come un'eterno presente dove l'ego individuale è l'unico soggetto implicato. Il ribelle, oggi, potrebbe essere colui che tiene a portata di mano nozioni come Storia, territorio, sovranità, dignità nazionale. Ma, per estensione, colui che percepisce lo stare al mondo come qualcosa di più di una semplice, ottusa sequenza di cazzi propri.

8 - A ben guardare il vero filo conduttore di "Italia: Ultimo Atto" è la natura fratricida delle dinamiche interne al nostro paese. Ed è interessante notare come, nella storia recente, la nostra gente abbia dimostrato più divisione che unità. Potremmo domandarci allora: "esistono davvero gli italiani?"

Esistono, ma su un piano di esistenza più flebile rispetto ad altre realtà aggregative: la fazione, la famiglia, la loggia, il partito, il gruppo d'interesse. Persino per quanto concerne la politica propriamente detta prevale una concezione localistica, provinciale e micragnosa. In questo paese si pensa in piccolo. Ma il vero dramma è iniziato quando certi vuoti di senso, certi, endemici, limiti di consapevolezza, hanno iniziato a essere riempiti dalla televisione.

9 - Dalle tue parole riguardo Pasolini emerge un forte sentimento di stima per il personaggio che tu associ, al fianco di Gentile e Gramsci, ai più alti vertici del mondo intellettuale italiano. Di Pasolini si parla ovunque e in tutte le salse, spesso a sproposito e comunque quasi sempre in maniera parziale. Pensi sia possibile fare una panoramica di Pasolini libera da condizionamenti?

Ogni vero intellettuale risulta, alla lunga, irriducibile alle logiche faziose di un paese che, per continuare a restare ciò che è, necessita di ripensare a se stesso in termini via via più miserabili. Per lungo tempo l'unico Pasolini di cui era rimasta memoria era quello sulfureo. Faceva comodo il blasfemo dileggiatore del sacro, ma non l'altrettanto blasfemo schifatore del cosiddetto progresso. Ci si ricordava volentieri dello spietato liquidatore della morale, del procacciatore di marchette pericolose, ma non certo di colui che mise alla berlina, in "Petrolio", lo stesso blocco di poteri atlantici che continua a tutt'oggi, ed è storia di questi giorni, a considerare questo paese come il loro porcile. In fondo è stata una fortuna per lui morire quand'è morto. Fosse sopravissuto fino a tempi recenti c'è da chiedersi che trattamento gli avrebbero riservato. Se avesse persistito e magari rincarato la dose, nella guerra solitaria che aveva intrapreso contro i nemici che si era scelto, probabilmente, lo avrebbero marginalizzato fino all'isolamento e avrebbe concluso la carriera pubblicando per piccoli editori di estrema destra, letto da quattro gatti e non recensito da nessuno. O, magari, avrebbe messo la testa a partito e accettato di trasformarsi in una vecchia checca pittoresca, alla Arbasino, dalla prosa spumeggiante e lo scarpino pitonato. Lessicalmente pirotecnico per pontificare sul nulla per un uditorio di pure nullità. Invece, essendo andata com'è andata, poss

iamo guardare alla sua opera come a una delle rare eccezioni in un panorama intellettuale di purissimo conformismo e di grottesche viltà. Al punto di sorvolare sulle sue non poche contraddizioni, non ultimo il fatto che, pur scagliandosi con veemenza contro lo strapotere di stampa e televisione, fino all'ultimo troneggiò su entrambe.

10 - "Italia Ultimo Atto" si chiude con l'omonimo brano, culmine della vostra lucida, e dunque assai amara, analisi del Novecento italiano. “Italia Ultimo Atto” può essere interpretato come ineludibile e necessaria pars destruens. E' lecito aspettarsi nelle future elaborazioni targate Ianva la corrispettiva pars construens? In altri termini, come risponderesti al leniniano “Che fare?

Questo è un vero problema. Anzi, il problema dei problemi. Mai come oggi l'azione diretta costituirebbe l'unica prassi adeguata e razionale e mai come oggi ogni possibilità di azione è tecnicamente preclusa. Essendo entrati da un paio di decenni nel dominio assoluto della comunicazione, risulta del tutto impensabile che i presupposti necessari dell'azione diretta, ossia il riconoscimento preciso delle parti in causa, le dottrine economiche, politiche e sociologiche a cui tali parti dovrebbero riferirsi, persino l'appartenenza dei singoli a questa o quella categoria, classe sociale, comparto etno-culturale e via dicendo, siano immediatamente riconoscibili. Lo spettacolo offerto dai cosiddetti Tea Party in USA, per esempio, mi pare paradigmatico. Di che si tratta in buona sostanza? Di una pletora di ex-appartenenti alle classi medie diventati poveri o del tutto spiantati a causa dello strapotere delle grandi holding speculative private. Cosa chiedono questi neo-poveri? Ancora più liberismo e ancora meno controlli per gli speculatori che li hanno rovinati altrimenti sarebbe, bestemmia delle bestemmie, socialismo. Ora, persino le plebi dell'antichità, persino le jacqueries trecentesche e la marmaglia di Masaniello avevano ben chiaro, pur essendo del tutto analfabeti, questa semplice dualità: di qui la pagnotta, di là chi te la sottrae. Oggi, essendo usciti dal processo storico ed entrati nell'eterno presente della comunicazione, questo processo non è più così automatico. La semplice funzione duale: acceso/spento, pro/contro, dentro/fuori pare sia diventata fuori portata per le masse. In queste condizioni diventa difficile pensare a qualsivoglia contromisura: verrebbe assorbita nell'indifferenziato della comunicazione nel volgere di pochi istanti.

Occorre studiare per individuare delle falle sistemiche, questa è l'unica risposta che mi sento di dare. Ma occorrono denaro e tempo. Esattamente le due cose di cui ci hanno maggiormente deprivati. E poi chi ci assicura che, una volta individuate, qualcuno si prenderebbe la responsabilità di ficcarci dentro un siluro? Le conseguenze sarebbero incalcolabili e mi chiedo in quanti sarebbero disposti ad accettarle serenamente quale prezzo da pagare pur di liberarsi da questo scempio.

11 – In una precedente intervista hai affermato : "non esistono liberi movimenti di massa, ma solo uomini liberi". E poi di seguito: "Ciò che potrebbe davvero portarci fuori [...] dalla palude attuale non può essere che un generalizzato cambio di paradigma". Si nota una sostanziale sfiducia nella "massa". Tuttavia, la soluzione viene ricondotta ad un contesto "generalizzato". Esiste quindi una linea di contatto fra Avanguardia e Popolo?

Da che mondo è mondo, la facoltà di ripensarlo, invece di subirlo passivamente per come ce lo presentano coloro che hanno interesse che tutto resti com'é, è prerogativa di pochi. Non esiste una volontà collettiva che s'incarichi di produrre idee. Esiste la libera e, talvolta, entusiatica adesione popolare a idee che sono state prodotte a monte da uomini speciali. Questa è la verità, che piaccia o no. E da questo punto di vista le masse attuali possono dormire incubi tranquilli: mai come oggi le centrali abilitate a produrre idee hanno avuto meno a cuore la gente, i popoli. E' persino fin troppo ottimistico affermare che pensino a noi come a dei consumatori: un sistema basato più sulla speculazione finanziaria che non sulla produzione può permettersi di centuplicare gli indigenti senza che il meccanismo ne risenta. Noi, piuttosto, esistiamo come contribuenti e come corpo conduttore attraverso il quale corrono i flussi della comunicazione. La fase presente è quella in cui si sta procedendo all'esproprio del risparmio privato, per lo più residuale del lavoro delle generazioni precedenti.

Attraverso la caduta salariale, la mancata o deficitaria erogazione di servizi al saldo di una leva fiscale sconquassante che costringono il cittadino a ricorrere, saccheggiando le estreme riserve, al settore privato. Il meccanismo dell'usura, puro e semplice.

Il salto di paradigma consiste nel mettere di fronte a tutti una dolorosa evidenza: che questo sistema è irriformabile, che presto o tardi toccherà a chiunque finire sotto i suoi cingoli e che piuttosto di sprecare tempo, risorse e speranze nell'illusione di umanizzarlo è infinitamente più razionale lavorare per farlo colassare. Accettando, va detto, a cuore saldo di affrontarne le conseguenze.

Scopo di un'avanguardia degna di tal nome, oggi, dovrebbe essere questo. Il resto corre il rischio di essere puro balocco. Nonché, molto importante, creare una rete, non virtuale, ma fisica, comunitaria, in grado di assicurare aiuto, mutua protezione, tessuto sociale in divenire per i suoi aderenti che li metta nella condizione di attraversare le lunghe e dolorose turbolenze purtroppo inevitabili.

E' un lavoro titanico, probabilmente generazionale, e non vedo francamente chi o cosa potrebbe farsene carico.

12 – Hai più volte lamentato il fatto che gran parte dei musicisti di oggi "non vogliono, o non possono permettersi un'opinione". Sarebbe ingenuo non riconoscere che la musica è uno dei mezzi più efficaci, assieme al cinema, per propagandare idee – sistema e plasmare le coscienze. La domanda è volutamente provocatoria: qualora gli Ianva fossero posti innanzi alla scelta tra il "moderare i termini" in cambio del successo, ed il mantenersi "fedeli alla linea" rimanendo entro il loro ridotto "spazio vitale", cosa fareste?

Premesso che noi non siamo quel tipo di progetto e io, in particolare, non sono quel tipo di uomo a cui oggi verrebbe offerto un patto di desistenza, ammettiamo in via puramente ipotetica che ciò avvenisse. Ebbene, la risposta è no. Il nostro lavoro ha un senso solo e unicamente per ciò che è e per ciò che rappresenta. Disinnescarlo significherebbe necessariamente sostituirlo con una sua controfigura senza peso, coraggio, autorevolezza. Una buffonata. E a me le buffonate non sono mai piaciute.

13 – Un paio di domande sul futuro di Mercy e degli Ianva. Ripercorrendo le vostre pubblicazioni, notiamo una continuità cronologica: prima Fiume, poi la Seconda Guerra Mondiale, gli anni '60, la stagione del terrorismo. Cosa c'è da aspettarsi dal prossimo lavoro?

La fenomenologia del tempo è una di quelle fonti di banalità alle quali mi bagno sempre volentieri.O, quantomeno, senza remore. Mi diverte. Probabilmente si tratta di una sindrome da storico mancato, anche se qualcuno ricorre con evidente piacere all'aggettivo "fallito". Ma non è affatto detto che questa debba essere una regola ferrea. La scansione dichiarata del nostro lavoro è quella narrativa e la sua cifra primaria è quella epica. E' triste notare come tale cifra narrativa, che è stata non solo una spina dorsale, ma addirittura un elemento fondante con il quale la civilizzazione occidentale, raccontandosi, ha preso coscienza di sé, sia oggi relegata alla letteratura di genere, come quella fantasy, o alla filmografia da blockbuster.

Ironicamente, tutte cose di esclusiva competenza americana: la civiltà intrinsecamente meno cavalleresca nella storia del genere umano.

Sbaglierò, ma continuo a pensare che l'Italia e l'Europa non hanno alcuna speranza di risollevarsi dal destino d'insignificanza e di estinzione di cui sono ormai ben distiguibili i contorni se, non solo continuano a soggiacere a dottrine economiche rovinose e alle autorità che le incarnano, ma anche se persisteranno nella loro auto-narrazione miserabile. L'Italia, poi, è un caso speciale. Il nostro dramma è che la nostra classe intellettuale è da decenni formata di uomini piccolissimi, talvolta infimi. E, con il tempo, hanno imposto schemi narrativi adeguati alla loro statura. Piccole storie ambientate in piccoli spazi. Capricci di mocciosi, perturbazioni uterine di donnicciole, delinquenti analfabeti, coppie schizzate. L'alternativa è la paro

laccia, la flatulenza, la corporeità vuota d'anima e deserta di cervello a misura di masturbatori frenetici. C'è un tipo che va spesso in televisione e si definisce il più grande scrittore italiano vivente. Il suo "capolavoro" pare sia incentrato su un personaggio fissato con gli alluci femminili. E' questo il genere di cose per le quali, oggi, la critica si sbrodola. Inutile far loro notare che, ormai, manca totalmente il respiro della Storia, manca la suggestione del paesaggio. Manca la forma compiuta della narrazione che racchiude in un unico corpo la sensualità e il senso tragico della vita, la vitalità che induce al buon umore, l'allegria del coraggioso, e il senso di pietà e di empatia per chi cade, fosse pure il peggiore degli uomini.

In una parola manca l'Uomo, soppiantato dallo psicopatico, dal deforme, dal bavoso, dallo svalvolato che accorda alla più infima delle sue personalissime manieun peso incomensurabilmente maggiore rispetto al più profondo dei drammi collettivi del suo tempo. C'è chi la civiltà la misura dal consumo di sapone, chi dall'arte culinaria. Io la misuro dal tipo di storie che sceglie di raccontarsi. Tenuti fermi questi punti è facile immaginare un intero ventaglio di storie possibili. Tra queste ne abbiamo scelto una, ma per scendere nel merito dovrete aspettare fino alla prossima stazione. Anche i tempi d'attesa entrano a pieno titolo nella narrazione.

14 - Sono indiscutibili le tue non comuni capacità scrittorie. E' possibile aspettarsi da Mercy un auspicabile debutto letterario? In questo senso, ci sono degli autori, e se si quali, che consideri tuoi punti di riferimento?

Ti ringrazio: voi siete troppo buoni. Sia come sia, è innegabile che larga parte dei lavori musicali che mi hanno visto coinvolto hanno a che fare con i libri. Sia che si tratti di opere reali, sia che si tratti di pseudo-biblia, i libri sono stati i veri convitati di pietra nell'ambito di quanto licenziato fino a oggi. Quindi si: era nell'aria da anni e, da qualche tempo, ho iniziato a lavorarci sopra. Più difficile è indicare delle preferenze. Ho amato un'infinità di autori, ma se dovessi indicarne anche solo uno come personalissima stella polare mi troverei decisamente in imbarazzo.

Come per i lavori musicali tengo più a portata di mano un certo spirito piuttosto che un determinato vademecum stilistico. In linea di massima potrei dire che provo una forte empatia per quegli autori che, per istinto, temperamento o scelta si sono scelti come nemico naturale quella che io, per comodità, definisco volontà di riduzione. Di cosa si tratta? In sintesi del lavoro perpetuo, tenace, instancabile che la realtà effettuale, attraverso il pensare e sentire della "maggioranza", non cessa di esercitare per riportare in linea ciò che supera la comune misura.

In altri termini concetti quali "Cristianesimo" (e bada,non ho detto Cristo), "popolo", "spontaneità", "verità" e potrei continuare all'infinito, assumono connotazioni del tutto dissimili se a trattarle sono da un lato, poniamo, Ellemire Zolla e dall'altro Baricco. Nel primo è percepibile l'ardore, la sofferenza del cimento per trascendere i limiti della finitezza, nel secondo ciò che ci resta è semplicemente l'ennesima modalità nel collaborare alla conservazione della piccolezza umana. Personalmente detesto in modo speciale anche quegli integralisti laici dell'ultimissima ora e quella loro presunta arguzia voltairiana. Sotto l'intenzione bonaria di caricaturizzare noi poveri stupidi gonfi di stupidi sogni, celano la malvagia, l'interessata, l'omniumana intenzione di rintuzzare con il ridicolo e con l'ilotismo ogni tentativo di grandezza. E senza neppure l'intenzione naturale del pessimista per spirito borghese come, per esempio, un Flaubert.

Del resto, non stiamo forse assistendo a un forsennato processo di criminalizzazione di certi valori del secolo scorso, caratterizzati sopratutto dalla volontà di ingrandire l'Uomo? Con il caso limite dell'Italia dove del vivere animalesco, soprattutto del pensare animalesco, del "volere" animalesco s'è fatta una regola d'igiene.




Clearco e Edoardo

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