La bellezza riunita... Lucio Battisti, piccolo omaggio a 12 anni dalla morte.
Trovarsi (o ritrovarsi) ad ascoltare un disco di Battisti, non è semplicemente ascoltare della musica. È un qualcosa che somiglia più al guardare che all’ascoltare. Non è fruire del suono di strumenti tangibili, ma godere dell’immagine che la canzone nota dopo nota, strofa dopo strofa ci palesa davanti agli occhi. Non è cantautorato, e nemmeno solo poesia. È immagine che si fa canto e musica. Ancora di più di De Andrè e di tanti altri cantautori, Battisti ha rappresentato l’immagine di un’epoca; un solo ritornello per trovarsi davanti agli occhi anni di storia d’Italia. Una passione che ha accomunato tantissimi giovani e vecchi di un tempo, ed accomuna giovani e vecchi di adesso. Una passione trasversale, che andava aldilà di ogni divisione. Eppure c’ha anche provato a stroncarlo, l’intellighenzia culturale, ma non c’è riuscita. Non potevi fare a meno di prendere il 45 giri in mano e farci passare sopra la puntina del giradischi.
Prendeva in giro le abitudini degli italiani, ne elevava il senso estetico, ne cantava la capacità di amare, ne descriveva il ritratto archetipico con quegli accordi, semplici, pochi; che come settimane scorrono nel tempo, ed invecchiano come invecchierebbe un vino, guadagnando di anno in anno non solo in bellezza, ma anche in originalità. Spesso si inflazionano, vengono sovente copiati, “coverizzati”, vengono abusati, stuprati. Ma appena li risenti cantati da quella voce per niente pulita, a tratti nasale, ti sembra che ci siano sempre state, che abbiano sempre vibrato nell’aria. E anche se non hai mai sentito una canzone di Battisti, ti sembra d’averla sempre avuta in mente. Non è mai cominciata, e mai finirà.
E dischi su dischi, successi su successi, la musica italiana dopo Battisti non è stata più quella di prima. Il primo Battisti, ma soprattutto il secondo, quello da “Don Giovanni” in poi. Quello stroncato dalla critica del tempo, quello contro il mondo della musica, quello che si ritira e non fa più concerti. Quello dei testi criptici di Panella e delle musiche elettroniche. Quel periodo nella carriera degli artisti dove, o scendi nel patetico e diventi la brutta copia di te stesso, oppure entri nelle leggenda. E lì ci resti. E come una vera leggenda muori giovane, ma a differenza degli eroi, Lucio muore in sordina, si fa seppellire in un cimitero anonimo alle porte di Lecco, con una lapide con sopra impresse due lettere. L B. Niente di più.
Sono stati scritti fiumi d’inchiostro su Lucio, sui suoi dischi, sulle sue opere. Tutti si ispirano a lui, tutti lo mettono tra le proprie influenze musicali, spesso a caso. Non voglio scrivere niente di più, ogni parola sarebbe superflua. Lucio bisogna ascoltarlo, anzi, guardarlo, goderne i dischi e tralasciare ogni tipo di aggettivo, come si conviene – o sarebbe giusto – fare davanti ad un quadro.
Ci manchi Lucio. Manchi ad un Italia così pacchiana, che ha perso tutto, che non trova talenti, solo mediocrità. Manchi perché qua intorno c’è il niente. Manchi perché si è perso il senso del bello. Ed è così che bisognerebbe ricordarti. In silenzio, magari con il sottofondo di una delle tue canzoni, ma non quelle inflazionate, niente Balla Linda, niente Anna o Mi ritorni in mente, ma una delle ultime (1994), di quelle criptiche e mal interpretabili ai più, che proprio di questo parla…
Estetica.
È successo quello che doveva succedere.
Ci siamo addormentati,
perché è venuto il sonno a fare il nostro periodico ritratto.
E per somigliarci a noi
più che noi stessi, ci vuole fermi,
che appena respiriamo,
e mobili ogni tanto,
come un tratto
sicuro di matita. Ecco che siamo
la viva immagine di una
distilleria abusiva che
goccia a goccia
secerne puro spirito.
Noi dietro una colonna ridevamo per l'aneddoto,
e ci contrastavamo amabilmente
su aria, fiato e facoltà vitale,
su brio d'intelligenza,
sull'indole e sull'estro,
soffio, refolo, vento e venticello,
sull'essenza e sulla soluzione,
sul volatile e sulla proporzione,
sul naturale e sul denaturato.
E poi sulla fortuna.
La fortuna non c'entra
quando una cosa
per terra si posa.
E vale sia per l'estetica
che per l'allodola.
E lui continuava a ritrattare.
A ritrattare quindi.
E la reale
e doppia fisionomia nostra
spariva via
come una coppia annoiata di
visitatori da una mostra.
Noi dietro le sue spalle
ridevamo per l'aneddoto
mimetico, drammatico, faceto, ditirambico,
e ci contrastavamo amabilmente
su verde, rosa e viola del pensiero,
su mente giudicante,
su lampo e riflessione,
e sul limpido e il cupo e il commovente,
su coscienza e su allucinazione,
sulla celebre cena e gli invitati.
Colori che divorano colori
se lo spirito s'eccita,
per caso esilarando,
oppure ardendo,
bruciando bruciando.
E chi dei due
ha le parti fredde
cercando le tue.
Trovarsi (o ritrovarsi) ad ascoltare un disco di Battisti, non è semplicemente ascoltare della musica. È un qualcosa che somiglia più al guardare che all’ascoltare. Non è fruire del suono di strumenti tangibili, ma godere dell’immagine che la canzone nota dopo nota, strofa dopo strofa ci palesa davanti agli occhi. Non è cantautorato, e nemmeno solo poesia. È immagine che si fa canto e musica. Ancora di più di De Andrè e di tanti altri cantautori, Battisti ha rappresentato l’immagine di un’epoca; un solo ritornello per trovarsi davanti agli occhi anni di storia d’Italia. Una passione che ha accomunato tantissimi giovani e vecchi di un tempo, ed accomuna giovani e vecchi di adesso. Una passione trasversale, che andava aldilà di ogni divisione. Eppure c’ha anche provato a stroncarlo, l’intellighenzia culturale, ma non c’è riuscita. Non potevi fare a meno di prendere il 45 giri in mano e farci passare sopra la puntina del giradischi.
Prendeva in giro le abitudini degli italiani, ne elevava il senso estetico, ne cantava la capacità di amare, ne descriveva il ritratto archetipico con quegli accordi, semplici, pochi; che come settimane scorrono nel tempo, ed invecchiano come invecchierebbe un vino, guadagnando di anno in anno non solo in bellezza, ma anche in originalità. Spesso si inflazionano, vengono sovente copiati, “coverizzati”, vengono abusati, stuprati. Ma appena li risenti cantati da quella voce per niente pulita, a tratti nasale, ti sembra che ci siano sempre state, che abbiano sempre vibrato nell’aria. E anche se non hai mai sentito una canzone di Battisti, ti sembra d’averla sempre avuta in mente. Non è mai cominciata, e mai finirà.
E dischi su dischi, successi su successi, la musica italiana dopo Battisti non è stata più quella di prima. Il primo Battisti, ma soprattutto il secondo, quello da “Don Giovanni” in poi. Quello stroncato dalla critica del tempo, quello contro il mondo della musica, quello che si ritira e non fa più concerti. Quello dei testi criptici di Panella e delle musiche elettroniche. Quel periodo nella carriera degli artisti dove, o scendi nel patetico e diventi la brutta copia di te stesso, oppure entri nelle leggenda. E lì ci resti. E come una vera leggenda muori giovane, ma a differenza degli eroi, Lucio muore in sordina, si fa seppellire in un cimitero anonimo alle porte di Lecco, con una lapide con sopra impresse due lettere. L B. Niente di più.
Sono stati scritti fiumi d’inchiostro su Lucio, sui suoi dischi, sulle sue opere. Tutti si ispirano a lui, tutti lo mettono tra le proprie influenze musicali, spesso a caso. Non voglio scrivere niente di più, ogni parola sarebbe superflua. Lucio bisogna ascoltarlo, anzi, guardarlo, goderne i dischi e tralasciare ogni tipo di aggettivo, come si conviene – o sarebbe giusto – fare davanti ad un quadro.
Ci manchi Lucio. Manchi ad un Italia così pacchiana, che ha perso tutto, che non trova talenti, solo mediocrità. Manchi perché qua intorno c’è il niente. Manchi perché si è perso il senso del bello. Ed è così che bisognerebbe ricordarti. In silenzio, magari con il sottofondo di una delle tue canzoni, ma non quelle inflazionate, niente Balla Linda, niente Anna o Mi ritorni in mente, ma una delle ultime (1994), di quelle criptiche e mal interpretabili ai più, che proprio di questo parla…
Estetica.
È successo quello che doveva succedere.
Ci siamo addormentati,
perché è venuto il sonno a fare il nostro periodico ritratto.
E per somigliarci a noi
più che noi stessi, ci vuole fermi,
che appena respiriamo,
e mobili ogni tanto,
come un tratto
sicuro di matita. Ecco che siamo
la viva immagine di una
distilleria abusiva che
goccia a goccia
secerne puro spirito.
Noi dietro una colonna ridevamo per l'aneddoto,
e ci contrastavamo amabilmente
su aria, fiato e facoltà vitale,
su brio d'intelligenza,
sull'indole e sull'estro,
soffio, refolo, vento e venticello,
sull'essenza e sulla soluzione,
sul volatile e sulla proporzione,
sul naturale e sul denaturato.
E poi sulla fortuna.
La fortuna non c'entra
quando una cosa
per terra si posa.
E vale sia per l'estetica
che per l'allodola.
E lui continuava a ritrattare.
A ritrattare quindi.
E la reale
e doppia fisionomia nostra
spariva via
come una coppia annoiata di
visitatori da una mostra.
Noi dietro le sue spalle
ridevamo per l'aneddoto
mimetico, drammatico, faceto, ditirambico,
e ci contrastavamo amabilmente
su verde, rosa e viola del pensiero,
su mente giudicante,
su lampo e riflessione,
e sul limpido e il cupo e il commovente,
su coscienza e su allucinazione,
sulla celebre cena e gli invitati.
Colori che divorano colori
se lo spirito s'eccita,
per caso esilarando,
oppure ardendo,
bruciando bruciando.
E chi dei due
ha le parti fredde
cercando le tue.
Che immane bellezza.
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