lunedì 30 agosto 2010

Mondo globalizzato vs Europa


“Viviamo in un mondo globalizzato” è una frase che si sente ripetere spesso: giornalisti, conduttori televisivi, opinionisti, politici, analisti ne fanno abbondante uso. Piaccia o meno, è la realtà. Sciocco sarebbe non riconoscerlo. La frase in questione non è dunque incriminabile, è tutt’al più una istantanea, una fotografia del reale. La frase diventa problematica quando pronunciata con aria di sufficienza, a dire: “viviamo in un mondo globalizzato” (e siamo d’accordo) con sottinteso “non possiamo fare nulla”. Detta così sembra che la globalizzazione sia un fenomeno come il sorgere del sole o lo scendere pioggia, due eventi che l’uomo non può oggettivamente controllare. Non può controllarli, in buona parte perché non da egli stesso creati e dei quali non ha seguito la genesi ma si è già trovato e ed è stato costretto ad accettarli. Per quanto riguarda la globalizzazione, siamo agli antipodi. Non è creazione divina, non è lo scorrere del tempo, non è fenomeno climatico né moto astrale sui quali avrebbe ben poche chance di intervenire con grazia di riuscire nel suo intento di modificare l’esistente. La globalizzazione è una creazione artificiale, una dinamica di sistemi creati dall’uomo e da lui utilizzati. Avendone seguito la nascita e lo sviluppo ha ben presenti (e pronti) gli strumenti per, eventualmente, intervenire e mutare di segno alla sua invenzione.

Facciamo un passo indietro.
Quando? Fosse un processo insito nella natura dell’uomo, parleremmo di globalizzazione fin dalla sua comparsa sulla terra. In realtà, la globalizzazione nel senso moderno (ed unico) del termine s’innesta sulla scena a partire dal secolo XIX, ha attraversato fortune alterne e fasi cicliche di stasi e ripresa fino a configurarsi nell’attuale modello fondato su un’economia dei servizi, la sempre maggiore interdipendenza, le migliorie nel sistema dei trasporti e ogni elemento capace di trasmettere ed interconnettere efficacemente ogni angolo del pianeta.
La motivazione del suo sviluppo non è -non può essere- però esclusivamente conferita alla “tecnologia”. Dietro la globalizzazione stanno infatti dinamiche culturali che spingono verso un’apertura indiscriminata di confini, modi di vivere, tradizioni locali. Queste dinamiche rispondono a più direttrici: internazionaliste/comuniste, cristiane e messianiche, più in genere occidentaliste, tutte accomunate dalla base ideologica del “bene” da esportare in contesti ancora non “civilizzati” sì da emancipare gli individui che lì vivono.




In altre parole: siete ad un livello umano inferiore (ma rispetto a cosa?) e accoglieteci, dateci campo libero ed avremo la possibilità di levarvi da questa condizione di miseria ed arretratezza. Trovimo insita all’interno delle aperture richieste in ogni dove, dal mercato all’istruzione allo sviluppo allo sfruttamento delle risorse et cetera, anche una componente razzista.

In tutto ciò, esiste qualcosa di ineluttabile, inarrestabile ed incontrollabile? Assolutamente No. La globalizzazione è un processo guidato dalla volontà umana e che da essa stessa può essere invertito visto che i risultati non sono minimamente apprezzabili. L’Africa fino agli anni ’50 sopperiva quasi interamente al suo fabbisogno alimentare, oggi è ridotta alla fame. La delocalizzazione produttiva, insieme all’incitare lo sfruttamento di manodopera resa schiava (si veda il pezzo sui Laogai - http://bsu-cultura.blogspot.com/2010/07/i-campi-di-concentramento-del-terzo.html -), contemporaneamente crea disoccupazione e problemi sociali di prim’ordine nei paesi d’origine e così via. Alcuni maître à penser hanno tentato di ipotizzare una sorta di globalizzazione diversa dall’attuale: una neo-globalizzazione che, rifiutando le logiche attuali ma accettando le basi teoriche, si ri-pensi e ponga soluzioni alle problematiche da lei stessa generate. Il tentativo è lodevole quanto assurdo. I risultati della globalizzazione sono insiti nelle sue stesse logiche, sono nella sua natura di sfruttamento e predazione come già indicato dallo storico Immanuel Wallerstein ne “il capitalismo storico” in cui individua con estrema chiarezza la necessità per le strutture produttive di andare continuamente alla ricerca di fattori a basso costo, principalmente la manodopera. Sic rebus stantibus, ogni tentativo di ripensare la globalizzazione è sterile e viziato all’origine da una erronea quanto parziale analisi della realtà. Una realtà con la quale dobbiamo fare i conti sempre, agendo su di essa per non esserne agiti. In questo senso la soluzione non è la negazione della globalizzazione (il ritorno ai microstati nazionali chiusi ed autonomi è un suicidio) né una sua ridefinizione quanto piuttosto una via terza, che non significa di metà strada. Il premio nobel all’economia 1988 Maurice Allais trova una via d’uscita nella creazione di ‘insiemi omogenei’ che siano quanto possibile indipendenti ed interdipendenti al loro interno e autonomi, se non addirittura ermeticamente chiusi all’esterno. Così, la nostra scialuppa di salvataggio ha un nome ed è Europa. Una Nazione di 700 milioni di uomini: lavoratori, fannulloni, operai, imprenditori, belle donne nordiche e seducenti bellezze mediterranee, storia millenaria, università prestigiose e tutto l’occorrente per autocentrare -ridefinire su noi stessi- il nostro sviluppo ed il nostro futuro.


Filippo

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